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Favola è una favola perché ci immerge nell’atmosfera onirica e voluttuosa del cinema classico hollywoodiano. Onirica per il dispositivo di fuga dalla realtà che quel cinema progettava meticolosamente. Voluttuosa rigorosamente sul piano dello sguardo, alla ricerca di un piacere voyeuristico frutto di una sublimazione del piacere sessuale tanto più intensa quanto più quel piacere veniva rimosso dallo schermo. Al suo primo lungometraggio, Sebastiano Mauri, artista poliedrico (fotografo, scrittore ecc.), sceglie la cifra del racconto che viene da lontano e che guarda lontano, del cinema al cubo, che ha il colore del mélo di Douglas Sirk ri-fatto da Todd Haynes (il riferimento a Lontano dal Paradiso è dichiarato a ogni inquadratura). La tensione metamoderna di Haynes, che usava seriamente il melodramma come lente di ingrandimento sulla società americana contemporanea, qua si riconverte in gioco postmoderno, in cui il piacere della forma, per dirla con Lacan, finisce per diventare il luogo di manifestazione più genuina dell’inconscio, dove è possibile riconvertire il desiderio scopico in desiderio sessuale. Così la vicenda è astratta e claustrata: si svolge tutta in una casa che è la proiezione esatta dell’immaginario della protagonista. Su tutto aleggiano un’ironia queer (‘favola’ nel gergo è l’esclamazione che camuffa dietro una superficie scintillante diversità e discriminazione), un oltranzismo visivo camp (l’artificialità di luoghi e oggetti, l’eccessività di colori e atteggiamenti) e un citazionismo (nel finale troverete Martin Scorsese mixato con Paolo Sorrentino) così disinibiti da smaterializzare ogni tentazione realistica. A questo la fotografia di Renato Berta, il montaggio di Osvaldo Bargero, le scenografie di Dimitri Capuani e i costumi di Fabio Zambernardi contribuiscono preziosamente. |