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Accantoniamo il rapporto fra media e pittura, almeno per come è venuto sviluppandosi negli ultimi anni. I dipinti che riproducono scrupolosamente le inquadrature cinematografiche, ricalcano le immagini pubblicitarie, copiano le riprese televisive, impoveriscono il linguaggio pittorico e non arricchiscono nemmeno quello massmediale. E poi, vale la pena ricordarlo, ogni forma di denuncia o di celebrazione - o di entrambe le cose insieme - della società dello spettacolo, dell'era delle comunicazioni di massa, della civiltà dei consumi è stata già utilizzata in chiave creativa nientemeno che da Andy Warhol, e dopo di lui da molti "replicanti": davvero non si sente il bisogno, dopo parecchi decenni, di prenderne in considerazione degli altri. Riportiamo invece il cinema al suo statuto di arte, privandolo in tal modo del generico - ma paradossalmente limitante - ruolo di strumento di comunicazione di massa. Il cinema come "film", e non come "movie" - per citare una distinzione elaborata da Kracauer. Il cinema come "settima arte" - per usare una formula coniata dai primi teorici - che attinge molteplici accorgimenti formali dalle altre sei, e talvolta li ricapitola e li approfondisce. Come avviene, per esempio, con il rapporto tra figura e sfondo, rovello di alcuni secoli di pittura occidentale. La figura come metafora dell'individuo e lo sfondo come emblema della società, del contesto naturale o culturale in cui è posto: il cinema, grazie all'avvicendamenteo dei "piani", amplia - nel senso anche letterale della parola - la portata di questo rapporto, dilatando vertiginosamente - o accorciando temerariamente - la distanza fra i due termini. Applichiamo quest'osservazione alla pittura, in particolare a quella di Sebastiano Mauri. Le figure, nei dipinti realizzati negli scorsi anni, si relazionavano allo sfondo secondo il modello del "campo lungo". Individui perlopiù tristi, coppie di individui doppiamente malinconici, singoli in cerca di una sorta di "felicità plurale" si stagliavano su insoliti fondali corrugati, campiture astratte - forse scaturite da anomale concretizzazioni atmosferiche - in cui i personaggi si smarrivano o risaltavano, a seconda dei punti di vista. La figura veniva esaltata dallo sfondo, inteso come strumento per enfatizzarne emotivamente i contorni, lo sfondo risultava valorizzato dalla figura, intesa come punto di convergenza delle fluttuazioni cromatiche, in una singolare assonanza conle tesi espresse da Bela Balasz, veroe proprio “pioniere” della teoria cinematografica. Muta il piano, cambia anche il teorico. Le opere più recenti di Sebastiano Mauri sono realizzate con inquadrature in primo piano. Lo sfondo – specularmente opposto a quello dei lavori precedenti – è liscio, immobile, invariato: tende a far staccare la figura, a isolarla, a privarla di connotazioni esteriori. Soggetto delle inquadrature: il volto. Cioè il primo piano stesso. Per Gilles Deleuze “il primo piano è sempre il volto”: lo è in due modi che possono essere espressi "in termini da orologiaio”, due modi “non comunicanti”, almeno nel linguaggio cinematografico, non in quello pittorico. Sebastiano Mauri associa nei suoi più recenti dipinti queste due modalità di rappresentazione. Il "volto-quadrante", il supporto statico dell'identità, la "superficie ricettiva immobile", la "lastra d'iscrizione", l'"unità riflettente", emblematizzata dalla sagoma del viso spogliata da ogni riferimento esteriore. Il "volto-lancette", l'insieme dei micromovimenti intensivi che connotano fisicamene il volto, "il volto come parte del corpo", il luogo carnale in cui si può leggere la dinamica dell'inconscio, la sede della "affezione originaria", del sentimento interiore che trapela dalla riproduzione fisionomica accurata, dall’ingrandimento macroscopico, dalla nettezza con cui sono delineati i contorni. Quasi a sottolineare che ciò che non può il cinema, può la pittura – non il media.

variazioni di piani by roberto borghi (exhibition text) milano 2002